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Full text of "Giovanni Vailati, 1863-1909"

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in  2011  with  funding  from 

University  of  Toronto 


http://www.archive.org/details/giovannivailati100papi 


L'ANIMA 

Saggi  e  Giudizi 


MAGGIO    1911 

GIOVANNI  VAILATI 

(1863-1909) 

la  vita  —  Giovanni   Papini. 

la  filosofia  secondo   Vailati  —  Giovanni  Papini. 

dalle  lettere  di  G.  Vailati. 

(Storia  delle  idee  -  Elogio  di  Locke  -  Positicisti  -  Metodo  introspettivo  - 
Sogno  e  Azione  -  Teoria  evoluzionista  -  Origine  dell'  agìiosticismo  -  TI  fonda- 
mento delVindu:ione  -  Validità  dell'induzione  -  Il  principio  di  contradizione 
-  Proposizioni  analitiche  -  Estetica  -  Interesse  del  disinteresse  -  Cause  d'er- 
rore e  di  verità  -  Firn  e  mezzi  -  Linguaggio  come  causa  d'errore  -  Difesa  del 
linguaggio  -  Dio  e  il  male  -  L'immortalità  dell'anima  -  Te  verità  necessarie  - 
L'attività  creatrice  e  la  filosofia). 

il  volume  degli  scritti  —  (G.  P.). 

giudizi  su  G.   Vailati    —  (E.   Bodrero,    G.  A.  Borgese,    P.  Bo 

selli,  Th.  Neal,  G.  Eabizzani,  G.  Vitelli). 
bibliografia  va ilat ia na. 


FIRENZE 
6,  Via   dei   Bardi, 


L'ANIMA 

SAGGI   E  GIUDIZI 

di  Giovanni  Amendola  e  Giovanni  Papini. 

Esce  ogni  mese  in  fascicoli  di  32  pagine. 
Non  si  mette  in  vendita  presso  i  librai. 

Abbonamenti:  un  anno,  in  Italia:  L.  6,00;  all'Estero  L.  7,50 
Un  numero  separato  L.  1,00  (ogni  richiesta  dev'essere  accompagnata  dal- 
l'importo). 

Tutto  quanto  dev'  essere  indirizzato  a  G.  Papini,  Via  dei  Bardi,  6,  Firenze. 

FRATELLI  BOCCA,  EDITORI  -  TORINO 

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LA  CULTURA  CONTEMPORANEA 

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Segretario  di  Redazione  :  Guglielmo  Quadrotta,  Via  del  Seminario,  104.  Roma 
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REVUE   CRITIQUE  PARAISSANT  CHAQUE  MOIS 

Directeur:  René  Martin  Guelliot,  99,  Boulevard  Raspail.  Paris  (VI)* 
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Anno  I.  Numero  5. 


L    ANIMA 

Saggi  e  Giudizi 

GIOVANNI  VAILATI  (1863-1909) 

Questo  numero  dell'anima  dedicato  a  Giovanni  Vailati  esce 
con  parecchi  giorni  di  ritardo.  La  colpa  è  quasi  tutta  del  com- 
pilatore ma  non  tutta. 

Quelli  stessi  a'  quali  pareva  dovesse  premer  di  più  questo 
affettuoso  richiamo  alla  lettura  e  alla  meditazione  degli  Scritti 
dell'amico  morto,  per  quanto  pregati  e  ripregati  da  parecchi 
mesi,  non  hanno  fatto  tutto  quel  eh'  io  speravo.  Col  loro  aiuto 
questo  numero  sarebbe  riuscito  assai  migliore  e  incomparabil- 
mente più  importante  :  basti  il  dire  che  Mario  Calderoni  avrebbe 
dovuto  scrivere  dell'originalità  di  Vailati  e  che  Giovanni  Vacca 
avrebbe  esaminata  l'opera  sua  in  quanto  storico  delle  scienze. 

Ridotto  alle  mie  sole  forze  e  alle  mie  sole  competenze  mi 
son  ridotto  a  far  cosa  infinitamente  più  modesta  :  una  specie  di 
invito  alla  lettura  del  volume  di  Giovanni  Vailati,  seguita  da 
un  saggio  di  lettere  che  posson  dar  l' idea  di  quel  che  potrebbe 
essere  l'epistolario  scelto  dell'amico  nostro. 

Si  avverta  che  1'  intenzione  mia  non  è  di  eriger  colonne  o 
scolpir  basamenti  per  inalzare  Vailati  più  in  su  della  sua  vera 
statura  e  non  vorrei,  come  dicono,  «  gonfiarlo  ».  Ma  io  ritengo 
sinceramente  e  fermissimamente  ch'egli  era  una  delle  teste  me- 
glio fatte  dei  nostri  tempi  italiani  e  che  il  volume  de'  suoi 
Scritti  meriterebbe  d'esser  letto  e  meditato  più  di  quel  che  non 
par  che  si  faccia,  giacché  ci  si  ritroverebbero  ed  accenni  ed  analisi 
e  sviluppi  e  consigli  ed  esempi  intorno  a  quell'arte  di  pensare  e 
di  ragionare  di  cui  oggi,  come  sempre,  v'è  grandissimo  bisogno. 

Se  queste  pagine,  per  quanto  mal  fatte  e  non  bastanti,  in- 
voglieranno  qualcuno  a  prendere  in  mano  il  grosso  volume  vai- 
latiano  con  rinnovata  curiosità  e  con  amorosa  pazienza,  io  sarò 
soddisfatto  —  e  non  soltanto  per  la  fama  dell'amico  ma  anche 
per  l'utilità  de'  nuovi  lettori.  G.  P. 


132  L'ANIMA 


LA   VITA 


Giovanni  Vailati  nacque  a  Crema  il  24  aprile  1863  dal  no- 
bile Vincenzo  Vailati  e  da  Teresa  Albergoni.  Fece  i  primi  studi 
coi  padri  Barnabiti  :  prima  nel  collegio  di  S.  Maria  degli  An- 
geli di  Monza  e  poi  in  quello  di  S.  Francesco  di  Lodi.  Nell'au- 
tunno del  1880  s'  inscrisse  nella  facoltà  di  matematica  a  Torino, 
dove,  narra  il  suo  biografo,  un  professore  francese  al  quale  era 
stato  affidato  contribuì,  con  letture  e  discorsi,  a  fargli  perder  la 
fede.  Fin  d'allora  studiò  con  eguale  ardore  le  cose  più  diverse. 
Rimase  a  Torino  fino  al  1888  e  si  laureò,  oltre  che  in  inge- 
gneria, in  matematica  pura. 

Passò,  dopo,  due  anni  a  Crema,  a  casa  sua,  leggendo  e  an- 
notando quanti  più  libri  potesse.  Pensava  già  di  darsi  all'  in- 
segnamento e  ne  scriveva  all'amico  Premoli  fin  dal  1891:  in  que- 
sto medesimo  anno  compariva  il  suo  primo  scritto,  nella  Rivista 
di  Matematica  del  Peano.  Ebbe,  in  quel  tempo,  incarichi  di  fi- 
ducia dalla  sua  città  :  fu  membro  del  Consiglio  d'amministra- 
zione degli  istituti  educativi  e  della  commissione  di  revisione 
dell'  imposta  sui  fabbricati. 

Nel  1892  il  Peano  lo  chiamò  come  suo  assistente  di  calcolo 
infinitesimale  a  Torino.  Nel  1895  fu  nominato  assistente  di  geo- 
metria   proiettiva  e  poi    assistente    onorario   del   prof.  Volterra. 

Nel  1899  insegnò  nel  Liceo  privato  di  Pinerolo  ;  nell'anno 
stesso  fu  mandato  al  Liceo  di  Siracusa  ;  nel  1900  trasferito  a 
Bari  ;  l'anno  dopo  a  Como  e  nel  1904  a  Firenze,  dove,  per  in- 
carico de'  Lincei,  avrebbe  dovuto  preparare  l'edizione  nazionale 
di  Evangelista  Torricelli. 

A  Firenze  si  legò  più  profondamente  coi  giovani  del 
Leonardo,  nel  quale  scrisse  fin  dall'annata  seconda,  e  da  allora 
incomincia  quella  che  si  potrebbe  dire  l'epoca  più  brillante  della 
sua  vita.  Perfino  il  ministero  della  pubblica  istruzione  s'accorse 
di  lui  e  il  ministro  del  tempo,  per  suggerimento  del  Salvemini, 
lo  chiamò  a  far  parte  della  Commissione  Reale  per  la  Riforma 
della  Scuola  Media,  dove  ebbe  modo  di  svolgere  e  saggiare  le 
sue  idee  pedagogiche. 

Dal  1906  al  1909  visse  tra  Firenze  e  Roma,  discutendo 
e  scrivendo  più  di  prima,  e  affaticandosi  forse  più  del  necessario 
per  non    mancare  a  nessuno   de'  suoi   doveri.  Verso  la  fine   del 


SAGGI  E  GIUDIZI  133 

1908  si  ammalò  abbastanza  gravemente  a  Firenze  ;  appena  si 
sentì  meglio  volle  partire,  contro  i  consigli  e  i  desideri  degli 
amici,  per  Roma  e  a  Roma  ricadde  malato  e  morì  nella  casa 
di  salute  delle  suore  di  S.  Carlo  il  13  maggio  1909.  Gli  furon 
fatti  funerali  solenni  :  fu  compianto  e  rimpianto  da  tutti. 

Era  di  persona  piuttosto  grande  e  grosso:  la  faccia  rubiconda, 
rasa  e  gioiale  ricordava  un  po'  quella  di  un  pastore  tedesco 
o  di  un  contadino  di  Breughel.  Non  era  bello  di  viso  né  elegante 
di  vesti  ma  piaceva  a  ognuno  che  con  lui  parlasse  anche  per 
poco.  Rideva  spesso  :  aveva  del  fanciullesco  e  dell'  ingenuo  anche 
nell'arguzia  e  pareva  che  volesse  divertire  se  stesso  svegliando  il 
riso  negli  altri.  Fu  semplice  di  abitudini  ;  sobrio  nel  mangiare 
e  nel  bere  ;  dimesso  nel  vestire  ;  modestissimo  in  tutto.  Amava 
appassionatamente  la  musica  e  l'amicizia,  i  libri  e  i  viaggi.  Non 
credo  s' innamorasse  mai  di  donna  :  so  che  non  volle  mo- 
glie specialmente  pel  timore  d'esser  troppo  debole  e  condiscen- 
dente coi  figlioli.  Ebbe  molti  amici,  alcuni  de'  quali  amò  con 
affetto  più  che  paterno  e  più  che  fraterno,  e  con  loro  fu  gene- 
roso di  consigli,  d' insegnamenti,  di  quattrini  e  di  libri. 

Viaggiò  molto,  sia  per  conoscer  gente  nuova,  sia  per  re- 
carsi a  congressi  o  a  visitare  scuole  o  biblioteche  :  fu  più  volte 
in  Francia,  in  Inghilterra,  in  Germania,  Danimarca,  Austria, 
Ungheria,  Grecia.  Predilesse  fra  i  popoli  i  Greci  e  gli  Inglesi. 

Fu  lettore  assiduisssimo  e  annotatore  instancabile  e  pur  pareva 
che  non  facesse  nulla  perchè  sempre  era  insieme  con  qualcuno, 
in  casa  o  fuori,  per  discorrere  dei  pensieri  suoi  favoriti.  Stava 
lunghe  ore  nei  caffè  e  desiderava  sempre  conoscere  uomini  nuovi 
e  studiarli.  Non  era  eloquente  nel  senso  meridionale  della  pa- 
rola :  ma  i  suoi  discorsi,  tirati  a  pulimento  logico  e  tutti  sfac- 
cettati di  metafore  e  di  spiritosaggini,  si  ascoltavano  volentieri 
e  spesso  persuadevano. 

Fu  orgoglioso  della  sua  mente  e  delle  sue  idee  ma  non  va- 
nitoso  e  non  si  perse  dietro  alle  ambizioni  dei  più. 

Non  ebbe  nemici. 

G.  P. 


134  L'ANIMA 


LA  FILOSOFIA  SECONDO  VAILATI  * 

Giovanni  Vailati  aveva  dell'  ufficio  della  filosofìa  un'  idea 
che  se  non  era  tutta  sua  era  però  non  poco  diversa  da  quelle 
più  favorite  da'  suoi  contemporanei. 

Il  filosofo,  secondo  lui,  non  era  chiamato  a  sviscerare  i 
segreti  del  cielo  e  della  terra,  a  metter  su  impalcature  di  sistemi 
o  a  piantare  cartelli  con  tanto  di  verboten  a  tutte  le  svoltate 
della  vita.  Il  filosofo,  invece,  doveva  essere  semplicemente  un 
ripulitore  perpetuo  degli  errori  che  perpetuamente  ritornano; 
un  raffinatore  e  miglioratore  degli  strumenti  del  pensiero  (lin- 
guaggio, logica....)  de'  quali  abbiamo  sempre  bisogno,  qualunque 
sia  il  fine  che  ci  proponiamo. 

Oli  piaceva  rassomigliare  il  filosofo  a  un  barbiere  che  deve 
ogni  poco  radere  sulla  guancia  dell'  umanità  le  cause  di  orrore 
che  continuamente  rinascono  o  all'arrotino  che  riaffila  i  coltelli 
che  sempre  si  ottundono  o  arrugginiscono  senza  sapere  a  cosa 
serviranno:  se  ad  una  operazione  chirurgica  per  salvare  un  ucmo 
o  ad  un  assassino  per  ucciderne  un  altro. 

La  filosofìa,  insomma,  dev'essere  studio  e  cura  de'  metodi, 
de'  concetti,  degli  strumenti  di  cui  tutti  ci  serviamo.  Solo  per 
questo  essa  può  distinguersi  dalle  scienze.  «  Se  vi  è  infatti  un 
carattere  che  distingua  la  scienza  in  genere  dalla  filosofia,  mi 
pare  che  esso  appunto  consista  in  ciò,  che  compito  di  quest'ul- 
tima non  è  tanto  di  fare  delle  scoperte  quanto  piuttosto  di  pre- 
pararle, di  provocarle,  di  farle  fare,  contribuendo  coli'  analisi, 
colla  critica,  colla  discussione  a  sgomberare  la  via  che  ad  esse 
conduce,  e  fornendo  i  mezzi  e  gli  strumenti  (ópyava)  richiesti 
per  superare  gli  ostacoli  che  rendono  difficile  progredire  in  essa. 
Il  caso  di  Bacone,  il  cui  valore  come  scienziato  è  pressoché 
nullo,  e  che  paragonava  se  stesso  al  trombettiere  che  incita  gli 
altri  ad  impegnare  battaglia,  dandole  il  segnale  senza  parteci- 
parvi, è  caratteristico  a  questo  riguardo  ;  e,  a  scusa  di  lui  e  dei 
molti  altri  filosofi  che  si  trovano  nello  stesso  caso,  si  potrebbe 
addurre  quel  noto  proverbio  contadinesco  secondo  il  quale  chi 
suona  le  campane  non  può  nello  stesso  tempo  seguire  anche  la 
processione  »  (352). 

1  I  numeri  fra  parentesi  si  riferiscono  al  voi.  degli  Scritti  (Firenze,  1911). 


SAGGI  E  GIUDIZI  135 

Il  Vailati  voleva,  a  differenza  di  certi  suoi  contemporanei 
che  hanno  per  le  scienze  il  disprezzo  e  la  repulsione  che  gli  asceti 
hanno  per  le  donne  (considerate  come  impure  e  come  produttrici 
di  pseudo-piaceri),  che  i  filosofi,  stessero  in  maggior  contatto  cogli 
scienziati.  «  E  alla  mancanza  di  solida  educazione  scientifica 
e  di  qualsiasi  «  allenamento  »  a  quelle  argomentazioni  precise 
e  a  quell'ordine  rigoroso  che  le  ricerche  positive  esigono,  che 
va  attribuita  quella  caretteristica  verbosità  e  quella  singolare 
imprecisione  di  linguaggio  e  di  pensiero  che  tanto  spesso  i  cri- 
tici stranieri  rimproverano  ai  nostri  scrittori  di  filosofia,  insieme 
ad  altri  difetti  non  meno  deplorevoli  »  (417). 

Non  voleva  però  che  la  filosofia  facesse  le  parti  di  suprema 
corte  di  cassazione  delle  questioni  più  generali  delle  scienze 
particolari  (217)  benché  ammettesse  che  il  compito  dei  filosofi 
fosse  appunto  quello,  e  specialmente  quello,  di  far  l'analisi  cri- 
tica di  quelle  nozioni  più  generali  ed  astratte  (tempo,  spazio, 
sostanza,  causa,  attività,  attitudine,  legge,  spiegazione)  di  cui 
occorre  far  uso  anche  nelle  scienze  particolari  (556). 

E  la  filosofìa  somiglia  alle  scienze  anche  per  un  altro  verso  : 
ch'è  scoperta  di  rapporti  :  «  anch'essa,  come  ogni  altro  ramo  di 
scienza  e  di  speculazione,  non  può  a  meno  che  aver  di  mira  la 
determinazione  di  relazioni,  di  rapporti,  di  connessioni,  sotto 
pena  di  non  dir  niente  e  di  non  servire  a  nessuno  »  (652). 

Ma  la  filosofìa,  secondo  i  più,  si  distingue  dalle  scienze, 
perchè  cerca  più  di  esse  il  generale  e  tende  ancor  più  ad  uni- 
ficare. Ma  il  Vailati  —  amico  fervente  e  costante  del  distingue 
frequente)'  —  quasi  se  ne  duole.  «  La  forma  —  egli  dice  — 
sotto  la  quale  più  frequentemente  ci  appaiono  i  risultati  delle 
ricerche  filosofiche  non  è  quella  del  riconoscimento,  o  della  de- 
terminazione di  nuove  distinzioni  e  differenze,  ma  al  contrario 
quella  della  critica,  e  del  rigetto,  di  distinzioni  comunemente 
ammesse  »  (582)  e  quella  non  gli  sembrava,  come  a'  molti,  strada 
buona  e  da  seguirsi  sempre. 

Tanto  più  che  questa  mania  del  generalizzare  ad  oltranza 
—  e  sempre  più,  all'infinito  —  li  porta  facilmente  a  sostituire, 
nelle  loro  valutazioni,  i  mezzi  di  cui  si  servono  per  conoscere 
ai  fini  per  i  quali  que'  mezzi  furono  escogitati.  «  La  tendenza 
a  foggiare  concetti  sempre  più  generali,  anche  oltre  al  punto 
nel  quale  i  concetti  generali  possono  servire  allo  scopo  loro,  che 
è  quello  di  condurci  a  stabilire  delle  classi  di  oggetti  dei  quali 
vi  sia  poi,  o  vi  possa  essere,  qualche  cosa  di   più   o  meno  im- 


136  L'ANIMA 

portante  da  affermare  o  da  negare,  —  la  tendenza  a  ricercare 
le  cause  e  le  spiegazioni  oltre  il  punto  nel  quale  ciò  può  essere 
utile  per  farci  riconoscere  come  e  in  quali  circostanze  si  pro- 
ducono i  fatti  che  si  tratta  di  spiegare  —  la  tendenza  a  dare, 
o  ad  esigere,  delle  definizioni  anche  di  ciò  che  non  può  essere 
definito  se  non  ricorrendo  ad  altri  concetti  o  parole  ancora  più 
bisognevoli  di  definizione  e  di  schiarimento  ;  —  tutte  queste 
tendenze  e  le  altre  analoghe,  il  cui  insieme  caratterizza  la  men- 
talità del  «  filosofo  »  in  quanto  si  voglia  distinguere  da  quella 
dello  scienziato  o  dell'uomo  di  semplice  buon  senso,  costitui- 
scono altrettante  speciali  manifestazioni  del  processo  di  sosti- 
tuzione dei  mezzi  ai  fini  nel  campo  delle  attività  intellet- 
tuali »  (788).  E  il  Vailati  paragonava  argutamente  i  cercatori  del- 
l'assoluto a  quell'aeronauta  il  quale,  volendo  salire  sempre  più 
in  alto,  finita  la  zavorra  cominciò  a  buttar  giù  gli  strumenti 
eppoi  i  vestiti  eppoi  la  navicella  e  finalmente  sé  stesso  !  Contro 
tali  filosofi  egli  ce  l'aveva  e  parlando  di  un  tale  che  scriveva 
la  storia  della  filosofìa  in  quella  forma  semimitologica  che  la  fa 
assomigliare  a  una  continua  battaglia  tra  sistemi,  egli  s'augu- 
rava una  reciproca  strage  di  metafìsici  e  che  quelle  battaglie 
avessero  «  una  volta  o  l'altra,  un  esito  non  diverso  da  quello 
che  si  racconta  della  lotta  fra  i  due  leoni  che  si  mangiarono 
l'un  l'altro  lasciando  sul   terreno  solamente  le  due  code  »  (652). 

Da  questa  concezione  derivava  la  sua  poca  simpatia  per  la 
filosofìa  tedesca  e  la  sua  predilezione  per  la  filosofìa  francese  e, 
sopratutto,  inglese  e  si  lamentava  che  perfino  ne'  libri  di  filo- 
sofìa del  diritto  si  dia  più  posto  ed  importanza  ai  filosofi  tedeschi 
che  ai  francesi  (364). 

Ce  l'aveva  poi  col  Kant  in  modo  particolare  e  si  compiacque 
che  il  Paulsen  sostenesse  che  fra  Kant  e  Hume  questi  abbia  in 
fondo  ragione  e  che  il  tentativo  di  dimostrare  l'esistenza  dei 
giudizi  sintetici  a  priori  sia  fallito  (293),  e  ritenne  collo  Stein 
che,  a  dispetto  della  Critica,  noi  abbiamo  sempre  con  Hume  un 
conto  da  liquidare.  E  lo  indispettiva  sentir  parlare  di  Locke  e 
di  Hume  come  precursori  di  Kant  :  ciò,  egli  diceva,  «  mi  fa  un 
po'  lo  stesso  effetto  di  quello  che  mi  farebbe  il  sentir  parlare 
di  Galileo  o  di  Newton  come  dei  precursori  di  Poincaré  o  di 
Picard,  ovvero  di  Bach  o  Beethoven  come  dei  precursori  di 
Chopin  o  di  Meyerbeer  »  (680)  e  arriva  a  dire  che  G-.  E.  Lam- 
bert è  superiore  a  Kant,  tanto  superiore  che  questi  non  l' ha 
nemmeno  capito!  (681). 


SAGGI  E  GIUDIZI  137 

E  nega  che  da  Kant  venga  la  geometria  non  euclidea,  la 
quale  è  in  anzi  in  perfetto  antagonismo  colla  dottrina  kantiana 
dell'  idealità  del  tempo  e  dello  spazio  (310).  Rileva  con  soddi- 
sfazione come  lo  sviluppo  moderno  della  psicologia  genetica 
abbia  dato  torto  a  Kant  (634-635)  ;  lo  accusa  di  mancanza  di 
chiarezza  e  di  rigore  (681)  e  dubita  fortemente  che  la  Critica 
della  Ragion  Pura  rappresenti  una  «  rivoluzione  filosofica  »  (681). 

Quando  si  pensi  che  per  molti  Kant  rappresenta  ancora  la 
filosofia  non  c'è  bisogno  di  aggiunger  parole  per  rilevare  in  qual 
contrasto  fosse  la  mente  del  Vailati  con  quella  dei  più  fra'  suoi 
compagni  di  tempo.  Né  poteva  rifugiarsi  tra  i  positivisti  che 
davano  anche  loro  esempi  di  quel  vuoto  nascosto  da  parole  e 
di  quelle  irregolarità  e  debolezze  di  procedura  teorica  che  tanto 
lo  seccavano  e  lo  disgustavano  nei  metafisici  alemanni.  Egli  vo- 
leva una  filosofìa  che  stesse  in  contatto  da  una  parte  colle  scienze 
(positivismo)  e  dall'altra  colla  vita  (pragmatismo)  ma  senza  esa- 
gerarsi il  valore  di  quelle,  anzi  riconoscendone  il  carattere  provvi 
sorio  e  convenzionale  e  senza  neanche  lasciarsi  fuorviare  dai  criteri 
troppo  utilitari  dell'altra.  Per  sfuggire  a  questi  pericoli  una  vi- 
gilanza continua  intorno  agli  strumenti  del  pensiero  e  un  tra- 
vagliarsi per  renderli  più  adatti  a  qualsiasi  scopo. 

Il  filosofo  deve  fornire  i  mezzi  migliori  e  lasciare  agli 
altri  la  scelta  dei  fini.  Il  neutralismo,  oltre  il  prometeismo  (pre- 
visione) fu  una  delle  note  essenziali  del  pensiero  di  Vailati  il 
quale  rifuggì  sempre  dalle  divisioni  e  decisioni  definitive. 

A  quest'  opera  —  necessaria  in  ogni  tempo  —  di  rieduca- 
zione al  pensar  retto,  il  Vailati  portò  notevoli  contributi  de'  quali, 
sia  per  la  difficoltà  degli  argomenti  che  per  la  pigrizia  degli 
italiani,  non  s'è  ancora  visto  abbastanza  il  valore,  la  portata  e, 
diciamo  pure,  l'originalità. 

G.  P. 


138  L'ANIMA 


DALLE  LETTERE  DI  G.  VAILATI 

/  passi  che  seguono  son  tolti  da  lettere  dirette  a  G.  Boine, 
M.  Calderoni,  G.  Papini  e  G.  Prezzolini. 

Storia  delle  idee. 

Sul  sentimento  di  «  necessità  »  io  sono  ben  lontano  dal  cre- 
dere che  lo  studiarne  l'origine  e  le  vicende  (i  fattori,  le  condi- 
zioni etc.)  possa  servire  a  «  giustificare  »  la  fiducia  che  istinti- 
vamente noi  siamo  portati  ad  avere  in  essi.  È  al  contrario  per 
renderci  conto  di  quanto  poca  fiducia  essi  meritino  e  per  inibire  e 
disciplinare  la  suddetta  tendenza  istintiva  che  è  sopratutto  utile 
(e  anzi  necessario,  per  i  filosofi  almeno)  approfondire  tali 
ricerche  di  psicologia  comparata,  di  storia  delle  idee  e  delle 
opinioni  che  ci  fanno  capire  quali  grandi  differenze  vi  siano 
state  e  vi  siano  tra  uomini  di  diversi  tempi,  di  diverse  razze, 
di  diversa  cultura,  di  diversa  educazione,  di  diverso  tempera- 
mento intellettuale  etc,  nel  giudicare  della  «  necessità  »  della 
tale  o  tale  altra  proposizione,  mentre  ognuno  (coll'eccezione  di 
qualche  raro  filosofo)  è  sempre  fermamente  convinto  che  ciò 
che  è  «  necessario  »  per  lui  sia  necessario  per  tutti  e  lo  sia 
sempre  stato  :  precisamente  come  un  uomo  di  «  buon  senso  » 
dei  nostri  tempi  crede  ingenuamente  che,  per  es.  il  «  buon 
senso  »  d'un  antico  romano  o  d'un  chinese  non  possa  essere  in 
opposizione  al  suo  (mentre  ne  differisce  assai  più  di  quanto  pos- 
sano differire  tra  loro  due  sistemi  filosofici  presi  a  caso). 

(16  novembre  1903). 

Elogio  di  Locke. 

È  a  lui,  mille  volte  più  che  a  Kant,  che  fa  capo  quello 
che,  per  brevità,  si  può  indicare  come  V indirizzo  critico  della 
filosofìa  moderna  :  quell'indirizzo,  che  nei  suoi  migliori  rappre- 
sentanti, si  manifesta  come  mirante  a  emancipare  la  mente 
umana  da  ogni  vincolo  che  essa  non  si  sia  consciamente  e  de- 
liberatamente imposto,  da  ogni  vincolo  di  cui  essa  non  veda  la 
ragione,  lo  scopo,  la  funzione,  la  giustificazione,  da  ogni  vincolo 
che   provenga    da   un'  inabile    Lenkung  della   sua   attività.  Egli 


SAGGI  E  GIUDIZI  139 

non  si  è  accontentato  di  dire  che  la  mente  è  attiva  nell'acquisto 
delle  sue  cognizioni  :  ma  si  è  domandato  in  che  cosa  consistesse 
la  sua  attività,  e  quali  fossero  le  operazioni  da  essa  effettuate 
sul  materiale  che  l'esperienza  (interna  o  esterna  :  dato  che  abbia 
senso  questa  distinzione,  il  che  sarebbe  da  discutere)  le  fornisce. 
Tali  operazioni  e  gli  strumenti  che  ad  esse  servono,  egli  ha  sot- 
toposto ad  analisi,  ha  notomizzati,  ha  vivisezionati.  Tu  dirai  che 
talvolta  li  ha,  perciò  appunto,  dovuti  ammazzare.  E  ti  rispondo 
che  ha  fatto  benissimo.  I  concetti  per  esempio  di  «  causa  »  e 
di  «  sostanza  »  dopo  essere  stati  analizzati  e  decomposti  da 
Locke  nei  loro  elementi,  dopo  essere  stati  da  lui  smascherati  e 
fatti  riconoscere  meglio  per  quel  che  sono  e  per  quel  che  dovreb- 
bero essere,  non  hanno  perduto  ma  al  contrario  acquistata  atti- 
tudine a  servirci,  per  quanto  abbiano  perduta  l'attitudine  di 
serva-padrona  che  prima  li  contraddistingueva  e  li  rendeva  insop- 
portabili. E  tra  gli  strumenti  di  pensiero  che  Locke  ci  ha  riconse- 
gnato ripuliti  e  disinfettati  (per  quanto  ancora  sempre  disposti  ad 
arrugginirsi  e  ad  ottundersi  un'altra  volta)  io  metto  in  primo 
luogo  quello  rappresentato  dalla  «  parola  ».  Nessun  filosofo,  dai 
Greci  in  poi,  ha  avuto  più  chiara  coscienza  di  Locke  delle  insidie 
del  linguaggio  e  delle  possibilità  di  evitarle  mediante  V appello 
al  concreto,  all'individuale,  al  particolare,  di  cui  l'astratto,  il 
generale  non  devono  essere  riguardati  che  dei  recipienti  (più  ò 
meno  soggetti  a  lasciar  passare  del  liquido  dalle  loro  fessure 
inevitabili).  Initium  sapientae  est  timor....  nominis.  E  questo  il 
timore  che  Locke  ha  avuto  il  coraggio  di  avere.  E  sul  suo  mo- 
numento, se  si  farà,  nessun  altro  suo  detto  sarebbe  più  adatto 
a  essere  scolpito  del  seguente  :  The  faults  which  men  are  usually 
guiltj^  of,  by  the  careless  use  and  application  of  words  are  not 
only  the  greatest  hindrances  to  true  knowledge,  but  are  so  well 
thought  of  as  to  pass  for  it.  (Essay.  Ili,  5).  Sia  gloria  a  lui  e 
auguriamoci  non  sia  l'ultimo  della  sua  razza  come  quasi  è  stato 
finora.  (29  luglio  1904). 

Positivisti. 

I  positivisti  scambiano  spesso  per  scoperte  il  loro  accorgersi 
di  qualche  difetto  nelle  loro  teorie.  (È  il  caso  per  esempio  della 
Gr.  Lombroso  che  <  scopre  »  che  la  degenerazione  ha  dei  van- 
taggi): le  chiamerei  piuttosto  dei  pentimenti  o  dei  rappezza- 
menti (delle  coperte  piuttosto  che  delle  scoperte). 

(26  agosto  1904). 


140  L'ANIMA 


Metodo  introspettivo. 


A  questo  si  obietta  che  il  solo  fatto  di  osservarci  dentro  fa 
sì  che  le  cose  ohe  osserviamo  non  siano  più  quelle  che  sareb- 
bero se  non  le  osservassimo  :  se  poi  dobbiamo  ricorrere  alla  me- 
moria per  osservare  ciò  che  è  già  passato  in  noi  essa  non  può 
fare  a  meno  di  sussidi  esteriori  la  cui  interpretazione  è  soggetta 
agli  stessi  pericoli  come  l'interpretazione  dei  segni  esteriori 
esprimenti  ciò  che  avviene  in  persone  diverse  da  noi.  La 
«  psiche  »  di  me  bambino  di  10  anni  è  tanto  estranea  a  me 
come  mi  è  estranea  quella  d'un  selvaggio  o  d'un  cinese;  e  quanto 
alla  mia  «  psiche  »  d'oggi  essa  è  come  un  occhio  che  non  può 
vedere  se  stesso  se  non  guardandosi  in  uno  specchio. 

(18  dicembre  1903). 

Sogno  e  azione. 

Tra  quelli  che  hanno  sognato  ciò  che  non  si  poteva  fare  e 
quelli  che  hanno  fatto,  o  reso  possibile  che  si  faccia,  ciò  che 
nessuno  (ed  essi  meno  degli  altri)  hanno  mai  sognato  di  volere, 
è  necessario  che  sorgano  quelli  che  proclamino  che  il  fare  e  il 
poter  fare  non  hanno  valore  se  non  in  quanto  servono  a  «  rea- 
lizzare qualche  sogno  »  e  che  i  sogni  non  hanno  valore  se 
non  in  quanto  si  possa  sperare  di  avere  forze  e  mezzi  per  realiz- 
zarli. Il  contemporaneo  riconoscimento  di  ambedue  queste  esi- 
genze è  molto  di  più  di  quanto  abbisogni  per  dar  corpo  e  vita 
a  una  nuova  orientazione  della  speculazione  filosofica  :  nessun 
più  alto  scopo  questa  ha  mai  avuta  né  potrà  mai  avere. 

(7  aprile  1904). 

Teoria  evoluzionista. 

La  tendenza  di  questa  a  ridurre  le  varietà  presenti  a  delle 
omogeneità  passate  è  più  che  compensata  dalle  prospettive  di 
diversità  future  che  essa  ha  aperto,  per  solo  fatto  di  far  riguar- 
dare come  variabili  e  modificàbili  molte  cose  che  anche  i  più 
arditi  pensatori  del  passato  (non  escluso  Eraclito)  avrebbero  esi- 
tato a  qualificare  come  tali.  Che  cosa  contano  di  fronte  a  ciò 
le  piccole  incoerenze  o  deficienze  dello  Spencer  riguardo  alle 
applicazioni  pratiche  o  politiche  delle  sue  teorie  ? 

(9  febbraio  1904). 


SAGGI  E  GIUDIZI  141 


Origine  dell'agnosticismo. 

Gli  uomini,  o  meglio  i  filosofi,  fecero  più  presto  ad  accor- 
gersi che  l'origine  e  la  giustificazione  delle  loro  credenze  e  co- 
gnizioni andava  cercata  (direttamente  o  indirettamente)  nell'espe- 
rienza, che  non  ad  accorgersi  che  la  stessa  cosa  era  vera  anche 
delle  loro  nozioni,  concezioni,  idee  etc.  Ne  derivò  che  il  campo 
legittimo  di  queste  ultime  fu  per  un  certo  periodo  creduto 
più  ampio  che  non  quello  delle  prime,  dimodoché,  durante 
tale  periodo,  gli  uomini  (i  filosofi)  s'immaginarono  di  poter 
immaginare  quello  che  già  sapevano  di  non  poter  conoscere  :  s'il- 
lusero cioè  di  poter  dare  un  senso  a  delle  proposizioni  non  tra- 
ducibili in  termini  di  esperienza,  mentre  pure  erano  già  con- 
vinti che  il  non  poter  tradurre  una  proposizione  in  termini  di 
esperienza  era  una  condizione  sufficiente  per  essere  certi  di  non 
poterne  provare  né  la  verità  né  la  falsità.  Di  qui  l'illusione 
agnostica. 

(29  giugno  1901). 

Il  fondamento  dell'induzione. 

Credo  che  parlare  di  «  fondamento  dell'induzione  »  sia  una 
contraddizione  in  termini,  poiché  la  distinzione  tra  ragionamenti 
deduttivi  e  ragionamenti  induttivi,  dato  che  abbia  valore,  con- 
siste appunto  nel  distinguere  i  ragionamenti  che  hanno  dei  fon- 
damenti (eie  delle  premesse  da  cui  derivano  sillogisticamente) 
da  quelli  che  non  hanno  fondamento.  Naturalmente  si  può  dare 
alla  parola  fondamento  anche  un  senso  più  largo  (per  es. 
quando  si  dice  :  la  tal  notizia  è  priva  di  qualsiasi  fondamento) 
ma  allora  i  fondamenti  di  un  ragionamento  induttivo  saranno 
i  fatti  su  cui  si  «  basa  ».  Una  induzione  fatta  «  according  to 
fixed  rules  »  è  una  deduzione  in  quanto  la  conclusione  derivi 
(per  sillogismi)  à&W  applicare  la  regola  in  questione  (chiaminsi 
esse  pure  le  regole  dell' «  induzione  »). 

(4  febbraio  1902'. 

Validità  dell'  induzione. 

Riguardo  alla  questione  se  «  la  validità  di  una  induzione 
sia  qualchecosa  di  evidente  per  se  »  io  direi  che  :  o  s' intende 
per  evidente  ciò  che  non  può  essere  negato  sotto  pena  di  con- 
traddizione (come  è  il  caso  per  le  proposizioni  «  Analitiche  »  e 
per  le  testimonianze   immediate  della  coscienza),  e  allora    nes- 


142  L'ANIMA 

suna  induzione  è  tale  che  la  sua  validità  sia  evidente  ;  o  s'  in- 
tende per  «  evidente  per  sé  stesso  »  qualchecosa  che  si  è  por- 
tati ad  ammettere  per  vero  indipendentemente  da  qualsiasi 
ragione  assegnabile  e  allora  qualche  induzione  è  certamente  tale 
che  la  sua  validità  è  evidente  per  sé  stessa.  Dico  qualche  e  non 
tutte  perchè  la  maggior  parte  dei  ragionamenti  che  qualifichia- 
mo come  induzioni  non  sono  che  frammenti  di  induzioni  la  cui 
validità  non  diventa  evidente  se  non  pel  fatto  che,  oltre  ai  fatti 
A,  B,  C  su  cui  le  basiamo,  conosciamo  altri  fatti  M,  N,  P  che 
ci  inducono  a  credere  nella  sufficienza  dei  fatti  A,  B,  C  per 
giustificare  la  nostra  conclusione,  —  e  inoltre  conosciamo  altri 
fatti  ancora,  E,  S,  T  etc.  che  ci  inducono  a  credere  che  i  fatti 
M,  N,  P  sono  sufficienti  per  provare  che  i  fatti  A,  B,  C  siano 
sufficienti  per  provare  la  conclusione  etc.  etc.  Il  processo,  anche 
nei  casi  più  ordinari,  è  assai  più  complicato  di  quello  che  i  lo- 
gici schematizzano  semplificando  la  realtà.  La  differenza  tra  i 
ragionamenti  dell'uomo  colto  e  quelli  del  bambino  e  dell'ani- 
male, —  differenza  che  si  esprime  d'ordinario  dicendo  che  il 
primo  ragiona  e  gli  altri  meno  o  non  affatto  —  sta  tutto  (o 
quasi  tutto)  nell'attitudine  ohe  l'uomo  ha  di  organizzare,  to  a 
greater  extent,  le  induzioni  nel  modo  suddetto,  in  modo  cioè  che 
esse  siano  brought  to  bear  le  une  sulle  altre. 

Se  tra  le  induzioni  la  cui  validità  è  evidente  per  se  stessa 
sia  da  porre  o  no  la  «  legge  di  causalità  »  a  me  pare  una  que- 
stione che  si  può  lasciare  aperta  senza  che  le  altre  induzioni 
restino  senza  «  fondamento  »:  resteranno  senza  fondamento  solo 
quelle  alla  cui  validità  si  richiede,  oltre  alla  semplice  consta- 
tazione dei  fatti  su  cui  si  basano,  direttamente  o  indirettamente, 
anche  quell'ulteriore  incremento  di  evidenza  che  può  ad  esse 
derivare  da  una  vaga  presunzione  dell'universale  dominio  della 
uniformità  e  della  «  causalità  ».  Il  principio  di  causalità  è  ri- 
sultato di  un'  induzione  come  tutte  le  altre  :  molte  di  queste 
sono  anzi  assai  superiori  ad  esso  in  fatto  di  certezza  ed  evi- 
denza. Se  esso  ha  il  vantaggio  di  trovare  una  verifica  in  tutti 
i  fatti  che  verificano  qualunque  induzione,  esso  ha  d'altra  parte 
lo  svantaggio  di  asserire  di  più  di  quello  che  tutte  le  altre 
induzioni  prese  insieme  asseriscono  e  di  poter  quindi  essere 
smentito  anche  da  fatti  che  non  smentiscono  alcuna  altra  in- 
duzione. 

ii2  luglio  1902). 


SAGGI  E  GIUDIZI  143 


Il  principio  di  contraddizione. 

Che  cosa  è...  se  non  un  avvertimento  sul  modo  in  cui  bisogna 
enunciare  le  nostre  opinioni  se  non  si  vuole  che  quelli  che  ci  ascol- 
tano ci  attribuiscano,  invece  di  quelle,  le  opinioni  contrarie?  Serve 
forse  esso  a  qualche  altro  scopo  che  a  quello  di  tener  desta  la  no- 
stra attenzione  onde  scoprire  in  noi  o  in  altri  delle  incoerenze 
o  dei  doppi  sensi  ?  (Il  contrario  effetto  è  invece  prodotto  dal  non 
ammetterlo,  il  che  avviene  indirettamente,  per  mezzo  di  quella 
solita  metafora  del  «  punto  di  vista  »  secondo  la  quale  la  stessa 
cosa  potrebbe  essere  vera  o  non  vera  secondo  che  più  fa  comodo 
per  il  contesto  o  per  l'argomento  che  si  ha  in  vista)...  Non  si 
potrebbe  applicare  la  stessa  osservazione  a  tutte  le  proposizioni 
analitiche,  in  quanto  esse  non  affermano  che  delle  nostre  inten- 
zioni o  dei  nostri  propositi  sul  modo  di  usare  certe  frasi  o  pa- 
role o  sul  senso  che  noi  vogliamo  attribuire  ad  esse  ? 

(19  luglio  1901). 

Proposizioni  analitiche. 

La  relazione  tra  le  proposizioni  analitiche,  e  quelle  (altret- 
tanto «  evidenti  »)  che  esprimono  la  constatazione  d'un  dato 
stato  attuale  di  coscienza  (per  es.  «  Penso  la  tal  cosa  »,  «  Ho 
freddo  »  etc.)  non  potrebbe  forse  caratterizzarsi  dicendo  che  le 
prime  sono  un  caso  particolare  delle  seconde  e  che  la  «  diffe- 
renza specifica  »  delle  prime  consiste  in  ciò  che  i  fatti  di  cui 
esse  esprimono  la  constatazione,  si  riferiscono  alle  somiglianze 
o  dissomiglianze  tra  stati  di  coscienza  (Guastella)  o  alla  coinci- 
denza, totale  o  parziale,  tra  i  sensi  che  noi  attribuiamo  a  date 
parole  o  frasi  ?  In  quanto  questa  attribuzione  è  volontaria  ed  è 
riguardata  come  mezzo  a  determinati  scopi  (più  o  meno  chiara- 
mente concepiti)  le  corrispondenti  proposizioni  analitiche  acqui- 
sterebbero inoltre  il  carattere  ulteriore  di  «  principi  metodolo- 
gici »  come  ad  es.  il  principio  di  contraddizione  [il  quale  non 
sarebbe  quindi  il  fondamento  dell'evidenza  analitica,  ma  piuttosto 
una  proposizione  analitica  più  generale,  ma  niente   affatto  più 

evidente  di  tutte  le  altre.] 

,27  luglio  1902). 


144  L'ANIMA 


Estetica. 


Definire  le  cose  belle  come  «  quelle  che  piacciono  a  tutti  » 
mi  sembra  non  corrisponda  ancora  a  una  completa  caratteriz- 
zazione di  tutto  il  contenuto  (connotazione)  che  ha  la  parola 
«  bello  »  quando  è  usata  nel  «  migliore  »  dei  suoi  sensi.  Non  ti 
pare  che  essa  implichi  che  la  cosa  qualificata  sia  tale  che  do- 
vrebbe piacere  a  tutti  ?  (piaccia  poi  o  non  piaccia  a  tutti  effet- 
tivamente). Platone  risolveva  la  questione  dicendo  che  bello  è 
ciò  che  piace...  all'uomo  di  buon  gusto  (allo  ar-o^ouoc  <xvv,p).  Si 
direbbe  un  circolo  vizioso,  ma  forse  anche  qui,  come  in  altri 
casi,  l'apparenza  di  circolo  vizioso  nasce  dal  dimenticare  che 
in  ogni  caso  qualche  cosa  si  deve  assumere  senza  ulteriori  prove, 
e  qui  questo  qualche  cosa  può  tanto  essere  la  distinzione  tra 
cose  belle  e  cose  brutte  quanto  quella  tra  uomini  di  buon  gusto 
e  uomini  di  cattivo  gusto.  In  questo  secondo  caso  è  messa  mag- 
gior enfasi  sul  fatto,  importante  a  tener  presente,  che  le  cose 
più  belle  hanno  sempre  cominciato  col  piacere  a  pochissimi,  e 
se  sono  poi  piaciute  a  tutti  è  solo  perchè  a  molti  non  piace 
che  ciò  che  piace  a  quelli  che  essi  ritengono  essere  migliori 
giudici  di  sé  stessi  nell'apprezzare  la  «  bellezza  »  delle  cose. 

(19  luglio  1901). 

Interesse  del  disinteresse. 

Tu  dici  che  negli  Studi  Sociali  non  si  può  essere  indiffe- 
renti. —  Sia  pure,  ma  si  può  tuttavia  proporsi  di  studiarli 
come  se  si  fosse  indifferenti,  e  si  può  avere  motivo  di  procedere 
in  tal  modo  allorquando  ci  si  proponga  di  arrivare  a  dei  risul- 
tati che  abbiano  la  maggior  possibile  probabilità  di  farci  pre- 
vedere quali  sarebbero  le  conseguenze  eventuali  di  dati  nostri 
modi  di  agire,  e  di  renderci  quindi  atti  a  scegliere  opportuna- 
mente la  nostra  linea  di  condotta  in  modo  che  questa  riesca 
effettivamente  conduciva  (scusa  l'orribile  inglesismo)  ai  fini  che 
ci  proponiamo. 

Il  suddetto  periodo  non  è  abbastanza  chiaro  e  mi  spiego 
meglio  :  Se  a  te  interessa  di  ottenere  un  dato  scopo,  non  ti  po- 
trà essere  indifferente  l'avere  una  maggiore  o  minore  garanzia 
che  i  mezzi  che  tu  credi  conducano  ad  esso  siano  veramente  ef- 
ficaci e  non  conducano  invece,  per  esempio,  a  un  fine  affatto 
opposto.  (Quante  volte  ciò  capita  nell'azione  politica  :  e  la  mag- 


SAGGI  E  GIUDIZI  145 

giore  utilità  degli  studi  storici  sta,  per  me,  nel  far  vedere 
quanto  spesso  e  ordinariamente  ciò  si  è  verificato  per  gli  indi- 
vidui e  più  ancora  per  le  collettività).  Ora  tra  le  condizioni  la 
cui  presenza  è  più  strettamente  richiesta  per  evitare  un  tale 
non  piccolo  inconveniente,  si  trova  appunto  il  procedere  con 
buon  metodo  (facendo  cioè  tesoro  dell'esperienza  che  i  prede- 
cessori hanno  fatto  in  proposito....  a  proprie  spese).  E,  tra  le 
regole  di  buon  metodo,  tanto  per  le  scienze  sociali  come  per 
qualunque  altra,  una  delle  più  importanti  è  quella  che  consi- 
glia a  mettersi  in  guardia  contro  la  troppo  naturale  tendenza 
ad  accettare  per  buone  delle  prove  per  il  solo  fatto  che  esse 
tendano  a  provare  ciò  che  noi  vorremmo  che  fosse  vero,  od  a 
chiudere  gli  occhi  davanti  a  date  obbiezioni  pel  solo  fatto  che 
esse  ci  potrebbero  essere  d'ostacolo  sulla  via  verso  conclusioni 
alle  quali  noi  avremmo  piacere  di  arrivare. 

È  appunto  perchè  noi  vogliamo  raggiungere  dei  fini,  che 
siamo  costretti  a  studiare  e  ricercare  come  stiletterebbero  o  ricer- 
cherebbero coloro  che  non  li  avessero.  È  un  fenomeno  di  rincorsa, 
analogo  cioè  al  cammino  che  fanno  indietro  quelli  che  vogliono 
saltare  appunto  per  poter  meglio  saltare. 

Quanto  più  un  uomo  tende  passionatamente  a  uno  scopo, 
tanto  più  ha  interesse  a  investigare  spassionatamente  quali  siano 
i  mezzi  atti  a  raggiungerlo  :  perchè  tanto  più  grande  sarebbe 
il  danno  che  potrebbe  venire  a  lui  dalla  trascuranza  di  porsi, 
sia  pure  artificialmente  e  provvisoriamente,  nelle  condizioni  mi- 
gliori per  prevenire  ogni  illusione  nell'apprezzamento  dell'effi- 
cacia dei  mezzi  che  egli  finirà  per  mettere  in    opera    in    vista 

dello  scopo  che  gli  importa. 

(14  gennaio  1904). 

Cause  d'errore  e  di  verità. 

Tra  i  modi  di  «  agire  come  se  si  fosse  indifferenti  »,  non 
vi  è  solamente  quello  di  inibire  provvisoriamente  (in  vista  ap- 
punto di  ottenere  il  massimo  risultato  utile  nelle  ricerche  che 
si  intraprendono)  l'azione  che  le  nostre  preferenze  o  emozioni 
tenderebbero  a  esercitare  sui  nostri  giudizi.  Un  altro  modo, 
spesse  volte  più  pratico,  specialmente  nelle  ricerche  in  cui  è 
più  difficile  spogliarsi  dalle  suddette  preferenze,  è  quello  di 
renderci  conto  del  loro  effetto  perturbatore  e  dell'ammontare 
probabile  di  questo,  correggendo  il  risultato  come  un  astronomo 


146  L'ANIMA 

fa  le  correzioni  alle  sue  osservazioni  quando  queste  siano  viziate 
dalla  rifrazione  dell'aria  o  da  qualche  imperfezione  del  suo 
strumento. 

Così,  per  fare  un  altro  paragone,  è  noto  il  fatto  che  un 
esercito  in  marcia  in  terreno  uniforme  e  in  mezzo  alla  nebbia, 
tende  a  deviare  verso  destra  (a  causa  della  diversa  estensione 
dei  muscoli  delle  due  gambe)  di  qualche  metro  ogni  kilometro. 
Ora  basta  che  ciò  si  sappia  perchè  il  comandante,  quando  voglia 
far  procedere  la  sua  truppa  in  linea  retta,  lo  possa  ottenere 
facendo  fare,  dopo  un  dato  numero  di  chilometri,  un  alt  seguito 
da  uno  spostamento  d'un  certo  numero  di  passi  a  sinistra  in 
direzione  perpendicolare  a  quella  in  cui  vuol  procedere. 

Quanto  all'acido  cosciente,  non  gli  basterebbe  certo  la  «  co- 
scienza »,  pura  e  semplice,  a  farlo  comportare  diversamente  da 
quello  che  farebbe  se  non  fosse  cosciente,  come  la  «  coscienza  » 
di  un  uomo  che  cada  dal  quarto  piano  (e  non  abbia  punti  dove 
aggrapparsi)  non  gli  servirebbe  affatto  per  evitare  di  cadere 
come  qualsiasi  altro  corpo  pesante  e  conformato  come  lui. 

L' influenza  della  «  coscienza  »  nostra  sui  nostri  atti  non 
ha  presa  che  per  una  piccolissima  parte  di  ciò  che  si  potrebbe 
chiamare  il  campo  delle  contemplazioni  o  aspettative  nostre  :  e 
a  ogni  modo,  agli  studiosi  di  fenomeni  sociali,  ciò  che  importa 
di  più  dal  lato  pratico  sono  le  coscienze  e  le  azioni  degli  altri 
le  quali  dipendono  ancora  meno  dalle  fantasie  di  chi  li  studia 
in  proposito  ad  esse. 

Il  caso  di  cui  parli  di  facoltà  che  si  acquistano  pel  solo 
fatto  di  credere  di  possederle  già,  si  verifica  certamente  qualche 
volta  (e  più  per  le  collettività  e  i  partiti  che  non  per  gli  indi- 
vidui) ;  ma  è  generalizzare  un  po'  troppo  l'erigerlo  quasi  a  caso 
«  tipico  »  e  ritenere  che  la  «  creazione  della  verità  »,  che  ivi 
appunto  si  verifica,  costituisca  una  regola  e  non  un'eccezione 
al  caso  ordinario.  E,  come  tra  le  verità  sono  poche  quelle  che 
si  possano  dire  «  create  »  dalla  nostra  credenza  in  loro,  così 
anche  per  ogni  data  «  verità  »  è  nei  caso  ordinario  pochissima 
la  parte  di  essa  che  si  può  chiamare  «  convenzionale  »  o  «  ar- 
bitraria ».  E  tale  parte  si  riferisce  più  al  nostro  modo  di  enun- 
ciare la  verità  stessa  (es.  scelta  delle  unità  di  misura,  dei  punti 
di  riferimento,  etc.)  che  non  alla  sua  «  sostanza  ».  Noi  siamo 
per  es.  padroni  di  porre  a  base  del  nostro  sistema  di  numera- 
zione il  numero  8,  o  12  invece  del  10,  ma  anche  in  tal  caso 
i  numeri  continueranno  ad  avere  le  stesse   proprietà    e    quelli, 


SAGGI  E  GIUDIZI  147 

per  esempio,  che  sono  divisibili  l'un  per  l'altro,  rimarranno 
tali  anche  nel  nuovo  sistema  per  quanto  vengano  scritti  di- 
versamente. 

(22  gennaio  1904V 

Fini  e  Mezzi. 

A  me  non  pare  valga  la  pena  di  discutere  se  per  raggiun- 
gere un  fine  sia  «  più  importante  »  avere  «  la  volontà  di  rag- 
giungerlo »  ovvero  conoscere  i  mezzi  che  son  necessari  per 
ottenerlo  :  ciò  che  è  certo  è  che  il  raggiungimento  del  fine  può 
essere  reso  impossibile  tanto  dalla  mancanza  del  primo  come 
dalla  mancanza  del  secondo  dei  suddetti  due  requisiti.  (Se  io 
voglio  fare  un  viaggio  alla  luna  e  non  conosco  alcun  mezzo 
per  far  ciò,  la  mia  volontà  serve  così  poco  pel  viaggio  come 
servirebbe  la  conoscenza  dei  mezzi  se  non  ci  fosse  la  volontà). 

Inoltre  io  credo  che  tutte  le  volte  che  si  discute,  si  discute 
effettivamente  sui  mezzi  e  non  sui  fini  e  ciò  non  tanto  perchè 
de  gustibus  non  est  disputandum  ma  poiché  il  dire  che  si  desi- 
dera la  tal  cosa  non  è  un'opinione  affatto  :  tanto  è  vero  che  un 
altro  può  desiderare  l'opposto  e  non  aver  torto  per  questo. 
Quando  tra  due  si  discute  sulla  desiderabilità  d'una  cosa  si 
discute  sempre  in  fondo  sulla  sua  capacità  a  servire  da  mezzo 
per  l'ottenimento  di  qualche  altra  cosa  che  ambedue  sono  d'ac- 
cordo a  desiderare  o  a  riguardare  come  desiderabile  :  credere 
di  discutere  sui  fini  è  un'  illusione....  se  non  m' illudo. 

(15  febbraio   1904}. 

Linguaggio  come  causa  d'errore. 

Sulla  tua  tesi  generale  non  occorre  dirti  che  non  sono 
d'opinione  diversa  dalla  tua  :  purché  però  tu  qualificando  il 
linguaggio  come  «  causa  d'errore  »  non  intenda  escludere  che 
esso  è,  almeno  altrettanto,  anche  «  causa  di  verità  ».  A  seconda 
dei  vari  campi  di  conoscenza  o  a  seconda  delle  sue  maggiori 
o  minori  imperfezioni  (non  tutte  irrimediabili)  o  del  suo  mag- 
gior o  minor  adattamento  ai  suoi  singoli  uffici,  può  variare  la 
proporzione  di  errori  o  di  verità  di  cui  esso  è  causa,  a  comin- 
ciar da  quelle  scienze  nelle  quali  ogni  errore  potrebbe  venir 
rimosso  dalla  sola  introdazione  d'un  linguaggio  sufficientemente 
perfetto,  fino  a  quelle  nelle  quali  i  vantaggi  risultanti  da  tale 
introduzione  sarebbero  così  tenui  e  aleatori  da  non  compensare 


148  L'ANIMA 

le  «  spese  d'impianto  »  d'una  terminologia  più  esatta  e  coe- 
rente di  quella  in  uso  e  già  adottata  per  bisogni  pratici.  La 
quale,  volere  o  no,  ci  asservisce  e  ci  tiranneggia  anche  quando 
taciamo,  poiché  anche  il  solo  pensare  ha  bisogno  di  parole  e 
a  questo  riguardo  se  ammettiamo  che  la  parola  non  è  d'argento 
dobbiamo  pure  ammettere  che  anche  il  silenzio  non  è  d'oro. 

(11  febbraio  1901). 

Difesa  del  linguaggio. 

Il  tuo  paragone,  secondo  il  quale  il  linguaggio  non  sarebbe 
che  un  trasmettitore  o  un  conduttore  e  quindi  (nota  che  neppur 
questo  «  quindi  »  ti  concedo)  può  esser  solo  «  causa  di  imper- 
fezione, di  cambiamento  di  errore,  non  causa  di  vsrità  »,  non 
tiene  conto,  a  quanto  mi  sembra,  che  di  una  sola  tra  le  molte- 
plici funzioni  che  esercita  il  linguaggio  rispetto  alla  conoscenza  : 
quella  cioè  di  mezzo  di  descrizione  di  fatti  (interni  o  esterni) 
avvenuti  o  «  vissuti  ».  Esso  trascura  affatto  l'altra  non  meno  im- 
portante che  è  quella  di  scegliere,  organizzare,  elaborare  l'espe- 
rienza passata  in  vista  dell'azione  futura  e  della  previsione  e 
anticipazione  di  ciò  che  non  è  ancora  avvenuto.  L'  impoveri- 
mento della  realtà  (per  quanto  deplorevole  dal  punto  di  vista 
estetico)  è  una  condizione  indispensabile  per  poterla  dominare. 
Per  tradurre  lo  stesso  concetto  nel  tuo  linguaggio  dovrei  dire 
che  fra  i  vari  modi  di  falsificare  e  deformare  la  nostra  rappre- 
sentazione delle  cose  e  del  mondo  ve  ne  sono  di  quelli  che  ci 
servono  assai  più  validamente,  nel  nostro  lavoro  di  creare  e 
deformare  effettivamente  la  realtà,  di  quanto  non  ci  serva  la 
passiva  contemplazione  cinematografica  (interna  o  esterna)  della 
«  corrente  »  tumultuosa  di  fatti  in  cui  «  viviamo,  ci  moviamo  e 
siamo  ».  Tali  deformazioni  ideali  del  mondo  (condizione,  ripeto, 
indispensabile  alle  deformazioni  reali)  sono  quelle  che  noi  chia- 
miamo, secondo  i  casi,  coi  nomi  di  «  astrazioni,  teorie,  ipotesi 
semplificatrici  schemi  logici  »  etc.  e  il  cui  insieme  contribuisce 
a  costituire  le  singole  scienze,  in  quanto  queste  sono  scienze 
vere,  cioè  atte  a  conferirci  il  potere  di  piegare  l'andamento 
delle  cose  secondo  i  nostri  desideri,  (la  facoltà  di  distinguere  i 
casi  in  cui  ciò  è  possibile  da  quelli  in  cui  ciò  non  è  possibile, 
e  nel  primo  caso  l'abilità  di  ricorrere  agli  stratagemmi  più 
opportuni  per  catturare  le  forze  cieche  della  natura  e  addome- 
sticarle aggiogandole  al  nostro  servizio). 


SAGGI  E  GIUDIZI  149 

Lo  scienziato  di  fronte  alla  «  natura  »  si  trova  nella  po- 
sizione di  Loge  di  fronte  ad  Alberico  quando  l' induce  a  diven- 
tare rospo  (Doch  wie  du  wuchsest  —  Kannst  du  auch  winzig  — 
Und  Klein  dich  SchafFen.  ..)  onde  render  possibile  a  Wotan  di 
afferrarlo  e  legarlo  : 

Dort  die  Kròte 

Greife  sie  rasch 

Halt  ilin  fest 

Bis  Ich  ihn  band  !  ! 

(18  febbraio  1904). 

Dio  e  il  male. 

In  questa  questione  teologica,  il  ragionamento  del  Bren- 
tano, se  ben  lo  capisco,  consisterebbe  nel  dire  che  Dio  ha  dovuto 
permettere  l'esistenza  del  male  perchè  senza  di  esso  l'esistenza 
del  bene  non  sarebbe  stata  possìbile.  Per  rispondere  poi  all'ob- 
biezione, che  si  presenta  subito,  che  nel  suddetto  ragionamento 
si  viene  implicitamente  a  negare  V onnipotenza  divina,  egli 
ricorre  all'artificio  (secondo  me  logicamente  illegittimo)  di  far 
figurare  tale  supposta  impossibilità  della  esistenza  del  bene 
senza  il  male,  come  un'  «  impossibilità  logica  »,  cioè  qualche 
cosa  di  analogo  a  una  «  contradizione  ».  (Così  egli  riesce  a 
mantenere  l'onnipotenza  di  Dio,  poiché  il  non  potere  realizzare 
delle  contraddizioni  non  è  una  limitazione  alla  potenza  di  chic- 
chessia). Qui,  a  mio  parere,  siamo  di  fronte  a  quel  solito  equi- 
voco che  consiste  nel  cercare  di  far  comparire  una  data  propo- 
sizione come  evidente  (nel  nostro  caso  tale  proposizione  sarebbe 
quella  che  afferma  l' impossibilità  dell'esistenza  del  bene  senza 
il  male)  dandogli  una  forma  tale  che  si  presti  a  essere  inter- 
pretata come  una  proposizione  analitica.  In  altre  parole  è  ve- 
rissimo che  1'  impossibilità  a  realizzare  per  es.  una  contraddi- 
zione in  termini  è  compatibile  colla  più  perfetta  onnipotenza  ; 
ma  a  ciò  bisogna  aggiungere  che  nessuna  delle  cose  che  si 
possono  immaginare  realizzate  (per  es.  il  bene  senza  il  male) 
può  essere  qualificata  come  una  contraddizione  in  termini  :  di 
modo  che  se  essa  non  si  realizza  non  è  perchè  sia  una  contrad- 
dizione in  termini,  ma  per  qualche  altra  ragione  (sia  essa  da 
cercare  nella  volontà  di  Dio,  o  altrove). 

(24  febbraio  1902). 


150  L'ANIMA 


L'  IMMORTALITÀ    DELL' ANIMA. 


1)  Non  riescirei  con  nessun  sforzo  a  conservarmi  anche 
solo  provvisoriamente  nella  situazione  in  cui  tu  ti  dipingi  : 
quella,  cioè,  consistente  nel  sentirsi  sicuro  della  proposizione  :  «  Io 
vivrò  in  eterno  »  e  nello  stesso  tempo  andar  cercando  che  cosa 
questa  proposizione  possa  significare.  Tutta  la  mia  costituzione 
mentale  si  ribella  a  un  procedimento  di  questa  specie.  L'as- 
senso a  una  proposizione,  anteriormente  al  riconoscimento  del 
suo  significato,  mi  pare  sia  un  assentire  a  nulla.  Si  potrà  certo 
credere,  e  si  crede  d'ordinario  anzi,  senza  sapere  perchè  si  crede, 
ma  credere  senza  a  sapere  che  cosa  si  crede  mi  pare  una  con- 
traddizione in  termini. 

2)  Alla  «  immortalità  dell'anima  »  nel  senso  di  un  pro- 
lungamento indefinito  della  coscienza  personale  dopo  la  morte, 
io  attribuisco  il  carattere  di  un'  ipotesi,  in  appoggio  alla  quale 
sta  l'opinione  o  la  convinzione  di  un  certo  numero  delle  mi- 
gliori persone  che  siano  mai  esistite  e  di  un  certo  numero 
delle  più  care  tra  quelle  tra  cui  vivo.  Le  prove  che  si  pos- 
sono addurre  contro  essa,  fondate  sulla  dipendenza  della  co- 
scienza e  della  memoria  dallo  stato  degli  organi  corporali, 
sull'analogia  tra  il  caso  degli  uomini  e  quello  degli  animali 
ecc.  mi  fanno  1'  impressione  di  renderla  alquanto  improbabile, 
e  questa  impressione  non  è  diminuita  che  in  grado  minimo 
da  esperienze,  di  tendenza  opposta,  dello  stesso  genere,  come 
quelle  fornite  dalle  ricerche  cosiddette  psichiche  (medianismo 
apparizioni),  o  dai  fatti  miracolosi  ricordati  nelle  storie  delle 
varie  religioni.  « 

3)  Che  con  ragionamenti,  o  con  argomentazioni  del  tipo 
di  quelle  che  si  trovano  nei  libri  dei  teologi  o  dei  filosofi,  si 
possa  provare  o  confutare  chi  crede  o  chi  non  crede  all'  immorta- 
lità nel  senso  sopradetto  io  non  lo  credo  affatto.  Ed  è  appunto 
per  la  coscienza  della  gravità  del  problema  che  assumo  un'atti- 
tudine di  indifferenza  e  quasi  di  disprezzo  per  le  discussioni  in 
proposito,  persuaso  come  sono  della  ioro  assoluta  e  irrimediabile 
inutilità  e  inefficacia.  La  mia  attitudine  a  questo  riguardo  differi- 
sce, come  vedi,  da  quella  degli  agnostici  propriamente  detti  per 
questo  :  che  mentre  non  credo  si  possa  arrivare  per  via  «  dialettica  » 
o  «  sillogistica  »  alla  soluzione  del  problema  non  escludo  affatto, 
anzi  spero,  che  ci  si  possa  arrivare  per  via  sperimentale,  inten- 


SAGGI  E  GIUDIZI  151 

dendo  questa  parola  nel  suo  senso  più  largo  comprendente  l'e- 
sperienza interna  (comunicabile  o  no). 

4)  Sul  valore  morale  della  credenza  all'  immortalità,  o. 
più  precisamente,  sugli  effetti  di  essa  sul  carattere  di  chi  1'  ha, 
anzitutto  credo  che  la  maggior  parte  di  essi  effetti  persistano 
anche  nel  caso  che  invece  della  credenza  vi  sia  un  certo  grado 
di  dubbio  (purché  naturalmente  tale  dubbio  non  si  avvicini 
troppo  alla  certezza  del  contrario). 

Inoltre,  fede  o  speranza  che  sia  quella  che  ciascuno  di  noi 
ha  nella  immortalità  propria,  essa  tanto  vale  quanto  vagliamo 
noi.  Per  l'uomo  di  alto  sentire  essa  è  uno  stimolo  di  più  all'a- 
zione e  al  superamento  di  se  ;  per  l'egoista  un  motivo  di  più 
per  preoccuparsi  della  propria  «  Salute  »  (compresa  quella  del- 
l'anima), o  per  allargare  il  concetto  della  «  carriera  »  estenden- 
dola anche  alla  propria  posizione  nell'altro  mondo  (certe  forme 
egoistiche  di  ascetismo  concepiscono  il  sacrificio  quasi  come  delle 
ritenute  per  aver  diritto  a  pensione). 

Infine  ti  propongo  un'esperienza  interna  che  data  la  tua 
fede  nell'  immortalità  tu  sei  in  grado  di  eseguire  anche  mentre 
stai  leggendo  queste  righe  : 

Supponendo  che  tu  potessi  rinunciare  alla  tua  immortalità 
come  Esaù  alla  primogenitura,  ti  sei  mai  trovato  in  casi  in  cui 
per  raggiungere  qualche  determinato  scopo  (in  vantaggio  tuo 
o  di  altri)  ti  saresti  sentito  pronto  un  tale  sacrificio  rinunciando 
ad  essa?  0  puoi  immaginarti  che  casi  di  questo  genere  ti  si 
presentino  ? 

Io  credo  di  poter  già  rispondere  di  sì  per  te. 

A  me  pare  che  tanto  più  valga  la  credenza  all'  immorta- 
lità quanto  minor  valore,  chi  crede,  attribuisce  alla  propria  so- 
pravvivenza. (Questa,  per  me  non  è  un'opinione  che  possa  essere 
vera  o  falsa,  ma  l'espressione  di  un  mio  apprezzamento  etico). 

(17  giugno  1908). 

Le   verità  necessarie. 

Sul  fatto  che  certe  nostre  opinioni  hanno  un  certo  carattere 
che  noi  indichiamo  dicendo  che  sono  «  necessarie  »  e  che  con- 
siste in  una  speciale  ripugnanza  che  sentiamo  non  solo  a  cre- 
dere ma  anche  solo  a  immaginarsi  o  a  supporre  che  esse  non 
siano  vere,  siamo   d'accordo. 

Si  può  discutere  : 

1)  Sull'origine  e  le  cause  di  tale  ripugnanza. 


152  L'ANIMA 

2)  Sulle  conseguenze  che  da  tale  carattere  di  «  necessità  » 
si  possono  trarre  relativamente  alla  verità  delle  opinioni  che  da 
esso  sono  affette. 

Le  due  questioni  sono  strettamente  connesse  tra  loro  e  non 
possono  a  mio  parere  essere  discusse  una  indipendentemente 
dall'altra.  Più  precisamente,  la  risposta  o  conclusione  a  cui  si 
arriverà  nella  seconda,  dipende  principalmente  (e  anzi  direi 
esclusivamente)  dalla  conclusione  a  cui  si  sarà  arrivati  nella 
prima. 

Quanto  al  metodo  da  seguire  per  la  trattazione  della  prima 
esso  non  mi  sembra  poter  consistere  in  altro  che  in  un  esame 
comparato  dei  vari  casi  nei  quali  tale  sentimento  di  necessità 
si  manifesta  o  si  è  manifestato  nelle  varie  epoche  di  sviluppo 
intellettuale  (della  razza  o  degli  individui)  sia  per  quanto  ri- 
guarda le  opinioni  popolari  (religione  etc.)  che  quelle  speciali 
ai  cultori  di  singoli  rami  di  scienze  (pregiudizi  professionali, 
assiomi,  etc),  non  che  delle  circostanze  da  cui  è  stato  deter- 
minato il  sorgere  di  nuove  «  necessità  »  (per  es.  la  «  conser- 
vazione della  massa  »)  o  il  decadere  di  «  necessità  »  antiche 
(per  es.  l' impossibilità  degli  antipodi  etc).  A  tale  studio  indut- 
tivo e  comparativo,  daranno  contribuzioni  preziose  gli  studi 
di  psichiatria,  sulle  idee  fìsse,  sulle  allucinazioni  parziali  etc. 
(troppo  poco  utilizzati  sinora  a  tale  scopo),  gli  studi  di  «  psi- 
cologia infantile  »,  quelli  sulle  idee  dei  selvaggi  dei  popoli 
primitivi  etc 

La  tendenza  di  ricerche  induttive  di  tal  genere,  come  si 
può  già  desumere  anche  dal  poco  cammino  che  si  è  fatto  in 
esse,  è  innegabilmente  verso  la  conclusione  che  la  maggior 
parte  delle  nostre  pretese  «  necessità  mentali  »  (analogamente  a 
molte  delle  nostre  necessità  fisiche)  non  sono  che  un  prodotto 
dell'abitudine  e,  in  tale  qualità  non  provano  quindi  altro  che 
la  presenza  costante  nella  nostra  esperienza  passata  di  dati 
caratteri  o  aggruppamenti  costanti  atti  a  farle  sorgere. 

Su  questo  io  credo  che  sarai  ancora  d'accordo  con  me.  Ma 
qui  forse  comincia  la  differenza:  Io  credo  che  oltre  all'esperienza 
e  alle  sue  ripetizioni  costanti  vi  sia  anche  un  altro  fattore  da 
considerare  come  portante  il  suo  contributo  al  sorgere  e  al  raf- 
forzarsi del  comune  sentimento  di  «  necessità  »  che  caratterizza 
alcune  delle  nostre  opinioni,  specialmente  su  soggetti  astratti 
e  filosofici. 

Questo  altro  fattore  è  quello  la  cui    azione  ho  tentato  chia- 


SAGGI  E  GIUDIZI  153 

rirti  con  quella  metafora  dell'  «  oscillazione  »  che  non  ha  incon- 
trato il  tuo  gusto.  Mi  rispiegherò  quindi  senza  metafora  (o,  in 
altre  parole,  con  diverse  parole).  Gli  scienziati  usano,  per  co- 
modo loro  (e  hanno  mille  ragioni)  cambiare  in  minore  o  mag- 
gior grado  il  senso  delle  parole  che  assumono  dal  linguaggio 
comune  per  adoperarle  come  termini  tecnici.  Così  per  es.  «  forza  » 
non  significa  per  i  meccanici  quello  che  tutti  noi  intendiamo 
quando  pronunciamo  tal  nome,  ma  vuol  dire  invece  qualunque 
«  causa  di  variazione  nella  velocità  (o  direzione)  del  moto  d'un 
corpo  ».  Ora  prendi  per  es.  la  frase  seguente  (che  è  il  cosidetto 
principio  d'inerzia):  «  Che  ogni  corpo  non  sollecitato  da  una 
forza  si  muove  sempre  con  la  stessa  velocità  e  direzione  ».  Questa 
frase  ci  fa  l'effetto  d'una  proposizione  «  necessaria  »  solo  perchè, 
pur  continuando  a  attribuire  in  essa  alla  parola  «  forza  »  il 
senso  abituale  e  comune  della  parola,  pure  pensiamo  che  essa 
non  può  cessare  di  essere  vera  senza  che  noi  cadiamo  in  con- 
traddizione colla  definizione  tecnica  sopra  enunciata  della  pa- 
rola «  forza  »  come  termine  scientifico.  Di  questo  successivo 
scambio,  tra  i  due  significati,  noi  non  ci  rendiamo  perfetta- 
mente conto  (allo  stesso  modo  come  quando  guardiamo  un  cine- 
matografo non  ci  rendiamo  conto  che  l' immagine  che  abbiamo 
davanti,  pure  sembrandoci  sempre  la  stessa,  è  formata  dal  suc- 
cedersi di  continuo  di  più  immagini  differenti  tra  loro):  noi 
crediamo  cioè  di  attribuire,  alla  frase,  sempre  uno  stesso  signi- 
ficato e  facciamo  invece  in  certo  modo  un  calembour  incosciente 
(cioè  senza  sapere  di  farlo)  attribuendogliene  due  nello  stesso 
tempo  (e  quel  che  è  peggio  non  sempre  compatibili  fra  loro). 
La  «  luce  »  dell'evidenza  che  noi  crediamo  «  semplice  »  è,  come 
quella  solare,  composta  di  raggi  eterogenei  sovrapposti  :  l'ana- 
lisi filosofica  serve  da  «  prisma  »  per  decomporla. 

(1  novembre  1903). 

L'Attività  creatrice  e  la  Filosofia. 

L'  «  attitudine  creatrice  »  che  tu  attribuisci  alla  filosofìa 
consisterebbe  dunque  nella  capacità  di  tradurre  direttamente  in 
atto  i  nostri  desideri,  senza  alcun  intermediario  esterno;  nel- 
l'estendere  cioè  a  tutte  le  cose  quella  padronanza  che  noi  già  ora 
esercitiamo  (fino  a  un  certo  punto)  sui  movimenti  dei  nostri  mu- 
sooli  e  sul  corso  dei  nostri  pensieri.  Ammetto  che  l' ideale  è 
bello  anzi  che  è  V unico  ideale  bello  perchè...  comprende  tutti  gli 


154  L'ANIMA 

altri  e  implica  la  realizzazzione  immediata  di  tutto  ciò  che 
possiamo  immaginarci  di  desiderare  ? 

Ma  per  raggiungerlo  o  anche  solo  per  avvicinarsi  ad  esso 
qual  via  ([aìGoS'ós),  quali  mezzi,  quali  «  strumenti  »  abbiamo  a  di- 
sposizione? Come  conoscere  che  quelli  che  tu  credi  siano  effi- 
caci a  ciò  lo  siano  effettivamente  ? 

Tu  sei  nel  caso  di  uno  che  volendo  colorire  di  giallo  un 
oggetto  dicesse  che  il  mezzo  più  sicuro  è  quello  di  procurarsi... 
l' itterizia,  e  poi  non  sapesse  indicare  nessun  specifico  o  pro- 
cesso per  provocare  una  tale  malattia.  E  anche  se  tu  fossi  ab- 
bastanza.... incoerente  per  occuparti  di  cercare....  il  mezzo  di 
far  senza  di  ogni  mezzo,  resterebbe  sempre  la  questione:  se  e 
fino  a  che  punto  valga  la  pena  di  modificare  noi  stessi  invece 
di  modificare  coll'azione  esteriore  le  cose  stesse  (o  gli  uomini) 
senza  scomodarci  a  sconvolgere  troppo  i  gusti  che  ci  troviamo 
avere  o  trasportare  il  nostro  piano  o  punto  da  cui  le  guardiamo. 

(27  gennaio  1904). 


....  nel  mio  tentativo  di  «  individualizzare  »  il  tuo  modo  di  con- 
cepire la  filosofìa  ho  trascurato  un  carattere  importante,  quello 
cioè  della  «  attività  creatrice  ».  Tale  omissione  è  tanto  più  da 
riparare  in  quanto  la  considerazione  di  questo  lato  della  tua 
«  filosofìa  »  viene  a  dare  ulteriore  conferma  a  quella  mia  prima 
congettura  relativa  al  desiderio  di  libertà,  di  emancipazione,  di 
ribellione  etc.  come  movente  fondamentale  del  tuo  fermento 
«  ideologico  ». 

Ma  venendo,  come  dicono  i  legali,  al  merito  della  questione, 
io  domando;  queste  «  attività  creatrice,  magica  etc,  »  da  che  cosa 
distingue  la  filosofia.  Se  essa  non  la  distingue  dall'  arte  (alla 
quale  la  stessa  qualità  compete  in  modo  ancora  più  caratteri- 
stico, come  del  resto  anche  l'altra  della  ricerca  del  particolare) 
non  le  distingue  neppure  dalle  scienze  particolari  ciascuna  delle 
quali,  nel  proprio  campo  speciale,  è  o  più  essere  altrettanto 
creatrice  o  magica  quanto  l'arte  o  la  filosofìa  nel  loro.  Un  chi- 
mico che  compone  un  nuovo  profumo  o  un  nuovo  veleno,  un 
ingegnere  che  fa  un  impianto  elettrico,  un  allevatore  che  crea 
una  nuova  specie  o  varietà  di  bachi  da  seta  o  una  nuova  razza 
di  cani,  uno  psicologo  o  un  educatore  che  forma  (o  perverte)  un 
anima  etc.  sono  per  lo  meno  altrettanto  creatori  quanto  il  co- 
struttore   di  nuovi    schemi    filosofici,  o   il  cesellatore  di    nuovi 


SAGGI  E  GIUDIZI  155 

aforismi  o  il  coniatore  di  nuove  «  parole  d'ordine  (o  di  «  disor- 
dine »)  atte  a  servire  nelle  logomachie  filosofiche,  o  lo  scopri- 
tore di  nuove  giustificazioni  per  gli  istinti  umani  etc.  etc. 

La  connessione  tra  il  tuo  concetto  della  missione  creatrice 
della  filosofìa  e  il  sopraccennato  istinto  all'emancipazione  e  alla 
libertà  più  illimitata  è  benissimo  caratterizzato  da  H.  Sturt  in 
una  recensione  che  leggevo  appunto  stamattina  nell'ultimo  nu- 
mero (January)  del  Mind,  a  proposito  d'  un  nuovo  libro  di 
A.  W.  Moore:  Such  speculations  as  these  (that  thought  has  not 
so  much  as  its  function  the  representing  of  reality  as  the  crea- 
ting  of  it)  undoubtly  tend  in  the  right  direction.  —  The  only 
danger  is  lest  those  who  are  pushing  forward  on  this  path 
should  tend  to  forget  that  thought  however  creative  cannot 
create  out  of  nothing,  and  that  objective  reality,  though  not  at 
ali  static  and  immutable,  sets  definite  limits  to  ali  human  crea- 
tive activity. 

Le  verità,  le  leggi  di  natura  etc.  sono  rotaje  su  cui  i  fatti, 
e  in  particolare  le  nostre  azioni  si  devono  muovere  ;  tu  dal  tuo 
istinto  di  libertà,  sei  portato  invece  a  concepire  1'  uomo  come 
una  nave  che  crea  la  propria  rotta  e  non  ha  solchi  davanti  a 
sé  ma  solo  di  dietro,  cioè  quelli  che  essa  stessa  fa. 

(30  maggio  1904). 


156  L'ANIMA 


IL  VOLUME  DEGLI  "  SCEITTI  „ 

Appena  Vailati  fu  morto  sorse  in  inciti  nello  stesso  tempo  l' idea  di  rac- 
cogliere i  suoi  scritti  sparsi  e  dispersi  in  un  volume  solo.  In  una  riunione  te- 
nuta in  casa  del  senatore  Volterra  a  Roma,  la  pubblicazione  fu  decisa  e  la 
cura  ne  fu  data  a  tre  suoi  amici  carissimi  :  Mai-io  Calderoni,  Giovanni  Vacca  e 
Umberto  Ricci.  Fu  aperta  una  sottoscrizione  che  in  poco  tempo  fruttò  più  di 
seimila  lire.  Fra  i  sottoscrittori  figurarono,  fra  gli  altri,  Antonio  Beltramelli, 
Franz  Brentano,  Benedetto  Croce,  Duhem,  Enriques,  Farinelli,  Pietro  Foà,  Gio- 
vanni Gentile,  William  James,  A.  Lasson,  E.  Mach,  Enrico  Morselli,  Gaetano 
Mosca,  Ugo  Ojetti.  Miss  Paget,  G  Peano,  Bertrand  Russell,  G.  iSalvemini,  G.  Ta- 
rozzi, F.  Tocco,  B.  Varisco,  Lady  Welby  e  moltissimi  altri  ammiratori  ed 
amici.  Il  ministro  della  pubblica  istruzione,  naturalmente,  non  dette  nulla  — 
cioè  :  una  lettera  di  Credaro. 

Si  cominciò  a  stampare  il  volume  nell'agosto  19'  9,  a  Firenze,  nello  sta- 
bilimento Aldino,  e  la  stampa  occupò  quattordici  mesi.  Il  volume,  che  per  lo 
spaccio  fu  affidato  alla  libreria  Seeb<-r  di  Firenze  per  l'Italia  e  a  quella  Barth 
di  Lipsia  per  gli  altri  paesi,  uscì  nel  dicembre  1910. 

È  un  bel  volume  di  gran  formato  che  contiene  : 

1)  una  prefazione  degli  editori  (pp.  vii-xjj). 

2)  la  lista  dei  sottoscrittori  (pp    xiii-xvi). 

3)  l'indice  generale  del  volume  (pp.  xix-xxxiii). 

4)  La  biografia  di  G.  V.  scritta  dal  P.  Orazio  Premoli,  suo  cugino  e  amico 
intimo  (pp.  I-XXlX).  Questa  vita  è  belia  e  ricca  di  notizie  e  lettere,  specie  per 
la  gioventù  del  Nostro,  ma  è  forse  troppo  personale  e  un  po'  tendenziosa  per 
quel  che  si  riferisce  alle  credenze  religiose.  Inoltre  v'è  tutto  un  lato  della 
personalità  di  V.  —  quella  socievole,  gaia,  entusiasta,  paradossale  —  che  non 
appare  abbastanza. 

5)  Gli  scritti  di  G.  V.  (pp.  1-947). 

6)  Indice  analitico  per  ordine  alfabetico  (pp.  951-970)  compilato  pa- 
zientemente da  M.  Calderoni  e  veramente  prezioso  per  chi  voglia  studiare  il 
pensiero  del  V. 

7)  Una  nota  (pp.  971-72)  che  si  riferisce  a  uno  scritto  di  V.  sull'  inse- 
gnamento della  filosofia. 

Sui  21?)  scritti  che  compongono  il  volume  ben  122  sou  recensioni  di  libri 
o  di  articoli  ;  9  semplici  e  nude  relazioni  di  congressi,  e  2  traduzioni,  (Meyer, 
Un  tempio  sacro  ;  Aristotele,  Il  primo  libro  della  metafisica). 

Resterebbero  80  scritti  originali,  de'  quali  12  son  ripetuti,  sicché  si  ridu- 
cono a  68  Però  anche  fra  questi  ultimi  ve  ne  sono  alcuni  che  prendon  le 
mosse  da  un  libro.  Il  V.  quando  s'era  innamorato  d'uu  libro,  non  lo  recensiva 
una  volta  sola:  vi  sono  ad  esempio  11  recensioni  del  James,  4  di  Mach,  4  di 
Effertz,  4  di  Calderoni,  3  di  Guastella... 

Classificando  gli  scritti,  sì  recensioni  che  articoli  originali,  secondo  gli 
argomenti  vediamo  che  29  son  di  matematica  o  di  logica  matematica;  12  di 
logica;  17  di  filosofia  delle  scienze;  22  di  storia  delle  scienze;  36  di  filosofia  in 
generale;  16  di  storia  della  filosofia:  11  di  psicologia;  11  di  studi  medianici; 
il  di  questioni  pedagogiche;  11  di  morale  e  dei  suoi  rapporti  col  diritto;  18 
di  sociologia  ed  economia  politica;  3  di  linguistica,  2  di  storia  delle  religioni 
e  3  di  varietà  semiletterarie. 

14  di  questi  scritti  furono  pubblicati  in  francese  ;  4  in  inglese  ;  1  in  greco 
e  1  in  polacco. 

Fra  gli  scritti  originali  i  più  importanti  sono  i  seguenti: 

—  Sull'importanza  dille  ricerche  relative  alla  storia  delle  scienze  (1896) 
pp.  64-78. 

—  Il  metodo  deduttivo  come  strumento   di    ricerca    (1897)    pp.  118-148. 

—  Alcune  osservazioni  sulle  questioni  di  parole  nella  storia  della  Scienza 
e  della  Cultura  (1898)  pp.  203-228. 

—  Le  iòle  du  paradoxe  dnns  la  philosophie  (1905)  pp.  553. 

—  I  tropi  della  logica  (1905)  pp.  564-71. 

—  La  caccia  alle  antitesi  (1905)  pp.  582-589. 


SAGGI  E  GIUDIZI  157 

—  La  ricerca  dell'impossìbile  (1905)  pp.  659-666 

—  Pragmatismo  e  logica  matematica  (1906)  pp.  689-694. 

—  La  grammatica  dell'algebra  (1908)  pp    871-839. 

—  Il  linguaggio  come  ostacolo   alla    eliminazione   di  contrasti   illusori 
11908)  895-899. 

—  Le  origini  e  Videa  fondamentale  del  Pragmatismo  (1909)  pp.  920-932. 

—  Il  Pragmatismo  e  i  vari  modi  di  non  dir  niente  (1909)  pp.  933-941. * 
Chi  legga  attentamente    anche   solo    questi  12  scritti  può  avere  un'  idea 

abbastanza  precisa  della  mente  di  Vailati 

Morendo  il  V.  lasciò  interrotto  un  libro  sul  Pragmatismo,  di  cui  due  capi- 
toli son  compresi  nel  volume,  e  che  vien  continuato  dal  sup  amico  e  discepolo 
Mario  Calderoni. 

Tra  i  suoi  fogli,  a  Crema,  furon  trovati  molti  appunti  per  un'opera  sullo 
Spirito  (esprit,  icite)  cioè  una  raccolta  di  facezie^ e  spiritosaggini  e  un  piano 
di  classificazione  psicologica  e  razionale  di  esse.  È  rimasto  inedito,  per  inav- 
vertenza, uno  scritto  di  V.  sulle  proporzioni,  che  sarà  presto  pubblicato  a  cura 
del  prof.  Enriquez. 

Gli  editori  degli  Scritti  banno  promesso  di  pubblicare,  col  resto  della 
sottoscrizione  e  col  ricavato  della  vendita,  una  scelta  delle  sue  lettere.  Di  esse 
abbiamo  dato  in  questo  numero  un  saggio.  Una,  sul  Congresso  di  Filosofia  di 
Ginevra  (1904),  fu  pubblicata  da  E.  Troilo  nelle  Cronache  Letterarie. 

GIUDIZI  SU  VAILATI 

Ebbe  realmente  alcune  parti  di  Socrate  e  fu  un  po'  anche  lui  ostetrico 
d'anime  :  per  la  liberalità  del  suo  sapere  e  del  sao  sentire  attrasse  potente- 
mente alcuni  giovani  e  destò  in  essi  entusiasmi  sconfinati  ed  illimitata  devo- 
zione. 11  pragmatismo  italiano  deve  riconoscere  in  lui  l' iniziatore  e  il  promotore 
non  dirò  più  geniale,  ma  certo  più  equilibrato  e  più  solido.  E  questa  parti- 
colare attitudine  di  pensiero  caratterizza  Vailati  meglio  d'ogni  altra:  matema- 
tico, storico  delle  scienze,  metodologo  e  logico-matematico,  egli  non  dà  la  sua 
nota  personale  così  chiara  in  niuno  di  questi  studi  come  nel  suo  pragmatismo. 

Th.  Neal. 

Vailati,  in  tante  altissime  discipline  ingegno  eccelso  e  potente,  fu  nella 
nostra  Commissione  della  riforma  della  scuola,  lavoratore  che  emerse  per  il 
pensiero  e  per  l'opera.  Paolo  Boselli. 

Era  filosofo,  perchè  amava  sobriamente  e  candidamente  la  vita  ;  perchè 
seppe  preferire  l'oscurità  e  la  decente  penuria  del  suo  Istituto  Tecnico  alle 
alte  posizioni  che  si  conquistano  sacrificando  quasi  sempre  la  propria  indipen- 
denza ideale,  molto  spesso  anche  la  propria  dignità  ideale.  Perchè  infine  fu 
signorilmente  largo  della  sua  dottrina  e  della  sua  bontà  con  gli  amici;  e  seppe 
coltivare  il  giardino  della  scienza  noa  per  gli  alberi  utili  da  cui  pendono  gli 
onori  e  le  comodità  materiali,  ma  per  i  fiori  di  bellezza  e  di  luce  ch'esso  pro- 
mette al  libero  viandante.  G.  A.  Borgese. 

Non  credo  di  aver  mai  conosciuto  altro  uomo  più  oggettivo  di  lui  in  qual- 
sivoglia discussione  o  ricerca.  Tutti  siamo  lieti  di  aver  risoluto  un  problema, 
per  piccolo  che  sia,  di  aver  trovata  una  via  là  donde  altri  non  seppe  uscire, 
di  aver  tolto  di  mezzo  ostacoli  che  arrestarono  altri  «  di  noi  migliori  »;  ma 
tutti,  più  o  meno,  non  giudichiamo  le  soluzioni,  le  argomentazioni,  le  grandi  o 
piccole  scoperte  nostre  con  la  stessa  indipendenza  di  giudizio  che  largamente 
ci  soccorre  nel  giudicare  le  altrui.  Al  Vailati,  invece,  l'opinione  propria,  forse 
più  spesso  che  l'altrui,  era  oggetto  indifferente  di  critica  severa.  S'era  a  volte 
in  molti  a  dargli  causa  vinta  e  a  riconoscere,  non  senza  qualche  rincresci- 
mento, l'errore  nostro  e,  con  caldo  entusiasmo,  la  giustezza  del  ragionamento 
suo  :  ma  non  si  si  arrestava  per  questo  il  lavorio  tenace  della  sua  mente,  e  si 
doveva  spesso  fluire  per  concedergli  che  il  torto  nostro  consistesse  nell'avergli 
data  troppo  presto  ragione.  «.  Spirito  di  contraddizione  »,  mormorava  sorridendo 
egli  stesso,  e  l'avrò  pensato  anch'io  le  prime  volte  :  non  lo  dissi  e  non  lo  pensai 
più,  quando  mi  avvidi  che  i  suoi  «  no  »  non  erano  dialetticamente    meno    sin- 

1  Questi  ultimi  due  furono  scritti  in  collaborazione  con  Mario  Calderoni. 


158  L'ANIMA 

ceri  dei  suoi  «  sì  »,  e  la  contraddizione  si  rivelava  come  non  altro  che  più 
intensa,  più  tenace,  più  ostinata  riflessione.  G.  Vitelli. 

Non  costruì  sistemi,  non  scrisse  opere,  non  ebbe  nemmeno  editori.  Pian- 
tatosi in  mezzo  al  campo  filosofico  con  quella  sua  quadratura  robusta  di  uomo 
semplice  e  fino,  ascoltò  con  curiosità  e  riferì  con  esattezza  ciò  che  dicevano 
gli  altri,  ora  scuotendo  il  capo  in  tono  insoddisfatto,  ora  annuendo  pieno 
d'energia,  più  di  rado  alzando  le  spalle  irritato  e  sprezzante.  Né  si  limitò  a 
registrare,  come  un  sismometro,  le  oscillazioni  spirituali  del  suo  tempo  ;  ma 
seppe  scegliere  fra  le  idee  multiformi  che  il  risucchio  delle  cose  gli  poneva 
innanzi  e  dare  un  significato  e  un  valore  a  ciascuna  delle  idee  scelte.  Il  suo 
metodo  era  un  po'  socratico  :  determinato  un  argomento,  l'ultimo  libro  di  un 
certo  interesse,  esporne  le  direttive,  riallacciarle  alla  storia  della  materia,  ri- 
spondere alle  domande  :  Che  cosa  ha  detto  di  nuovo  ?  Come  lo  ha  detto  ?  Che 
cosa  si  potrebbe  dire  ancora?  E  lì,  riflessioni  contrapposte  a  riflessioni,  limi- 
tazioni, attenuazioni,  aggiunte.  Non  potendo  prendere  ciascun  lettore  in  di- 
sparte, il  Vailati  si  pose  in  mezzo  a  tutti  :  la  recensione  è  il  mezzo  più  idoneo 
perchè  le  idee,  suscitate  in  lui  da  una  lettura,  si  affaccino  alla  luce,  abbiano 
contatto  col  pubblico.  G.  Rabizzani. 

In  quel  volume  chiunque  legga  scorge  lo  sviluppo  perfettamente  organico 
di  una  mente  squisitamente  sensibile  e  come  la  curvatura  di  uno  spirito  che 
cerca  una  sua  perfetta  armonia.  Non  è  difficile  riscontrare  a  traverso  quelle 
pagine  una  linea  diretta  e  sicura  di  pensiero,  per  entro  un  atteggiamento  mute- 
volissimo di  tendenze  In  tutti  quelli  scritti,  per  chi  ben  vi  riguardi,  sono  una 
saldezza  ed  una  unità  spirituali  meravigliose,  insieme  con  una  straordinaria 
coerenza  personale:  fenomeno  questo  che  stupisce  quando  si  ripensi  alla  im- 
mensa varietà  degli  argomenti  che  son  toccati  nel  volume,  ed  all'  innegabile 
carattere  sofistico  dell'ingegno  del  Vailati.  Il  fatto  stesso  che  tutti  gli  scritti 
sono  determinati  e  non  spontanei  parrebbe  dover  pregiudizialmente  contradire 
a  tale  accertamento  :  invece  esso  è  una  riprova  di  quello  che,  per  dire  una 
brutta  parola,  era  il  meccanicismo  di  quell'ingegno,  il  quale  amava  cimentarsi 
quasi  per  un'audacia  sicura  che  fidava  nelle  proprie  forze  comprensive,  con 
qualsiasi  manifestazione  dell'attività  umana  ;  esso  è  una  riprova  dell'integrità 
fortissima  che  quello  spirito  possedeva  in  sé  e  per  se  stesso,  di  là  dalle  con- 
tingenze accidentali  della  parola  scritta.  E.  Bodrero. 

BIBLIOGRAFIA 

Vitelli  G.  G.   V.  (Marzocco,  23  Maggio  1909]. 
Rabizzani  G.  L'opera  di  G.   V.  {Marzocco,  22   Gennaio  1911). 
Troilo  E.  In  memoria  di  G.    V.  [Cronache  letterarie,  22  Gennaio  1911). 
M.  Calderoni.  G.    V.  (in  Eivista  di  Psicologia  applicata,  a.  V.,  n.  5,  Settem- 
bre-Ottobre 1909). 
G.  Papini.  G.  V.  [La  Voce,  a.  Ili,  n.  13,  30  Marzo  1911). 
B.  Fogarasi.  G.   V.  (in  Huszadtk  Szàradi,  Aprile  1911) 
E.  d'Ors.  G.   V.  (La   Veu  de  Catalunya,  juny  1909). 
G.  Amendola.  G.   V.  (Bussky  Mysl  1911). 

—  Gli  scritti  di  G.   V.  (Nuova  Antologia,  1°  Marzo  1911). 

—  G.   V.  {Giornale  d'Italia,  Maggio  1909). 

B.  Varisco.  G.  V.  (Rivista  di  Filosofia,   1909). 

A.  Cappellazzi.  Gli  scritti  di  G.  V.  (Rivista  di  filosofia  neo-scolastica,  a.  Ili, 

n.  2,  20  Aprile  1911,   pp.  272-75). 
E.  Bodreko.  La  genialità  latina  e  il  pensiero  di  G.   V.  (Rivista    Italiana  di 

sociologia,  a.  XV,  fase.  Il,  Marzo-Aprile  1911). 
G.  A.  Borgese.   Un  divulgatore  (Stampa,  21    Maggio    1909.    Ristamp.    in    La 

Vita  e  il  Libro,  Torino.  Bocca,  1910,  la  serie,  pp.  468-474). 
Th.  Neal  [A.  Cecconi].  G.  V.  (La  Cultura  Contemporanea,  a.  Ili,  fase.  III-IV 

aprile-maggio  1911,  pp.  271283). 
Index.  G.  V.  (in  Corriere  della  Sera,  19  febbraio  1911. 


Giovannozzi  Angiolo  —  Gerente-responsabile. 


1911  —  Stabilimento   tipografico  Aldino,  Via  de'  Renai,  11  —  Telef.  8-Jr5. 


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TH.    NEAL 


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